La storia

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CVL: un esercito di popolo per la Liberazione

Il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà venne istituito il 19 giugno 1944 quale evoluzione del preesistente Comando militare per l’Alta Italia. La decisione del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) venne presa per almeno tre motivi: 1) risolvere il problema del coordinamento delle brigate partigiane che facevano capo ai diversi partiti; 2) fornire loro, in modo unitario e coordinato, un sostegno logistico, economico e organizzativo; 3) dar vita a un organismo militare che potesse dialogare ai massimi livelli con il governo Bonomi in carica nell’Italia centromeridionale liberata e con gli alleati, piuttosto restii a riconoscere un ruolo alle organizzazioni partigiane.

Del Comando generale facevano parte sei membri: uno per ciascuno dei partiti della Resistenza (Pci, Psiup, Dc, Partito d’Azione, Pli) più il consigliere militare. In caso di parità la questione veniva rinviata al CLNAI. In meno di un anno, il Comando generale del CVL riuscì a svolgere un ruolo rimarchevole nei confronti delle 110 brigate (oltre diecimila uomini), divenne interlocutore autorevole del governo e degli alleati e rappresentò la fonte in assoluto più accreditata di informazioni e comunicazione nell’ultimo anno di guerra. Il 25 aprile il Comando generale organizzò e guidò l’insurrezione finale in tutte le città del Nord e i suoi membri (Parri, Longo, Mattei, Stucchi, Argenton e Cadorna) aprirono la sfilata partigiana del 6 maggio 1945 a Milano.

Lo stesso 6 maggio, la bandiera del Corpo Volontari della Libertà (oggi custodita nel Museo Sacrario delle Bandiere al Vittoriano) venne decorata dal generale americano Crittenberger con la Medaglia d’Oro, conferita con Decreto Luogotenenziale del 15 febbraio 1945.

Il 15 giugno successivo il Comando si sciolse dopo aver ceduto i suoi poteri alle autorità militari alleate.

Tredici anni dopo, con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottiene il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle forze armate italiane. La norma sancisce giuridicamente quello che gli storici avevano già riconosciuto: il fatto, cioè, che la Resistenza italiana è stata un movimento di popolo che riuscì a darsi strutture politiche e militari capaci di essere protagoniste in prima persona, a fianco degli alleati nel processo di Liberazione del Paese.

Nel frattempo, nel 1948, era stata costituita la Fondazione CVL con il compito di dare sostegno e assistenza ai partigiani in difficoltà e alle famiglie dei caduti e con l’obiettivo di approfondire e perpetuare la storia della Resistenza, la Fondazione ha sempre proseguito e prosegue il suo lavoro.

LA STORIA - IL COMITATO MILITARE

Verso la metà di settembre del 1943, il CLN di Milano (Alta Italia) decise di costituire un Comitato militare. Lo scopo era quello di coordinare la lotta armata contro il nazifascismo. Ma fu subito chiaro che la semplice costituzione dell’organismo non avrebbe dato risultati se non fossero stati risolti i problemi di fondo che, fin dall’inizio, avevano impedito una vera e sostanziale unità politica e d’azione del movimento. Le diverse brigate, infatti, (salvo pochissime del tutto slegate dal CLN) facevano capo a uno dei cinque partiti dell’antifascismo italiano, il che comportava notevoli differenze d’impostazione anche dal punto di vista dell’operatività e delle relative scelte. In generale, i comunisti partecipavano a tutti gli organismi unitari, ma tendevano a organizzare in piena autonomia politica e militare le loro Brigate Garibaldi.

Oltre all’aspetto politico, c’erano profonde divergenze anche sulle scelte militari: comunisti, democristiani e liberali erano più propensi a un’azione continua e decisamente aggressiva contro i nazifascisti: una vera e propria guerra guerreggiata che esigeva grande coordinamento tra le varie brigate. Azionisti e socialisti (questi ultimi anche divisi al loro interno) non negavano l’importanza di arrivare ad alzare il livello dello scontro militare, ma ritenevano che, prima, fosse necessario raggiungere una maggiore efficacia soprattutto sul piano organizzativo. Questioni che finivano per concretizzarsi in scambi di accuse: di attendismo o avventurismo a seconda dei casi.

Il Comitato militare si formò abbastanza rapidamente a partire dal nucleo che già collaborava con Ferruccio Parri (“Maurizio”, prima “Valenti” e prima ancora “Marsili” dal momento che i nomi di battaglia si cambiavano abbastanza spesso per motivi di sicurezza), leader politico del Partito d’Azione, che ne fu il primo coordinatore. Con Parri, nel primo Comitato militare entrarono: Giulio Alonzi (Pli), Giovanni Citterio (Pci), Giovanni Battista Stucchi (Psiup), Galileo Vercesi (Dc). Parri venne nominato coordinatore: egli stesso rifiutò il titolo di comandante per sottolineare la collegialità dell’organismo. Il Comitato militare (i cui compiti non erano stati definiti con precisione dal CLNAI) si mise al lavoro su almeno quattro grandi temi: a) la formazione e l’armamento delle bande partigiane; b) la formazione di gruppi di azione (non più di 10 membri) nei grandi centri urbani; c) il collegamento tra le brigate attive in Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria; d) gli aspetti finanziari, amministrativi, logistici, di trasporto e sussistenza che le brigate dovevano affrontare tra mille difficoltà.

Ma per tutto l’inverno 1943, le questioni politiche di fondo rimasero sostanzialmente intatte. Il contrasto era evidente: il Partito d’Azione era quello che credeva di più nella necessità di un organismo come il Comitato militare perché funzionale alla sua linea di puntare sull’organizzazione e sulle azioni più “leggere”, in attesa di raggiungere una “massa critica” qualitativa e quantitativa tale da permettere azioni armate su più vasta scala. Gli altri partiti, Pci in testa, criticavano questa idea giudicandola attendista e, anche per questo motivo, partecipavano al Comitato con dirigenti non di primissimo piano. Citterio (che cadrà da eroe in Val d’Ossola nel febbraio 1944) venne quasi subito sostituito a fine novembre da Francesco Leone che mantenne nel Comitato un atteggiamento decisamente critico nei confronti della gestione Parri.

La situazione era di stallo: dal Pci partivano bordate critiche contro Parri accusato di “dittatura personale” (alle quali “Maurizio” rispondeva per le rime) ma nessuno, nel Comitato militare aveva la sua statura politica e autorevolezza. L’organismo continuava quindi a lavorare sotto la sua direzione. Le critiche, d’altra parte, non arrivarono mai al boicottaggio e tutti continuarono a impegnarsi nel lavoro organizzativo anche con buoni risultati. Tra scambi di accuse, si arrivò alla riunione del CLNAI del 29 dicembre 1943 in cui venne approvata, con alcune sostanziali modifiche, la posizione azionista: Parri avrebbe mantenuto il coordinamento ma non gli venne affidata “la direzione superiore delle attività militari” che il Partito d’Azione avrebbe voluto per lui. Cadde anche il divieto per i membri del Comitato di svolgere attività politica nelle formazioni partigiane, purché si parlasse di antifascismo e non di propaganda di partito. Fu un modo per venire incontro alle richieste di entrambe le parti, ma ancora non fu sufficiente per affermare definitivamente e autorevolmente il ruolo del Comitato militare.

Il Comitato, rafforzato nella sua leadership, si rimise al lavoro. In particolare su due filoni, entrambi fondamentali: quello del rapporto con gli alleati e quello dell’informazione. Lo stesso Parri si dedicò al tema della raccolta delle informazioni sulle vicende belliche, l’attività del nemico e la situazione politica e sociale del Paese. Ma, oltre a raccoglierle in periodici bollettini (cosa in cui la rete costruita da Parri e dai suoi uomini dimostrò grandissima capacità, con ottimi risultati) le informazioni “di qualità” dovevano arrivare ai due principali destinatari: il CLNAI (e non era troppo difficile) ma soprattutto i rappresentanti degli alleati in Svizzera. Gli alleati, tra l’altro, fornivano il loro sostegno economico al CLNAI e alle brigate proprio come corrispettivo delle informazioni ricevute. Venne così organizzato un vero e proprio “servizio” di corrieri che andavano avanti e indietro da Milano a Lugano portando documenti preziosissimi. Le autorità svizzere di frontiera erano molto “collaborative” e a Lugano, il sistema dei corrieri aveva un punto di riferimento in Alberto Damiani che rappresentava il Comitato militare presso gli alleati.

L’altra questione, a cui gli alleati tenevano ovviamente moltissimo, era quella dei prigionieri angloamericani fuggiti (o liberati dagli stessi partigiani) dai campi tedeschi. Questi militari avevano bisogno di assistenza e di essere nascosti per avviarli, appena possibile, oltre confine. L’attività per i prigionieri alleati iniziò il 20 settembre 1943 e venne affidata a Giuseppe Bacciagaluppi che organizzò una rete molto efficiente di persone, nascondigli, case e mezzi di trasporto. Nel solo inverno 1943-’44, vennero così portati in salvo oltre mille militari alleati.

PARRI E VALIANI: L’INCONTRO CON GLI ALLEATI

Il 3 novembre 1943, Ferruccio Parri e Leo Valiani, quali rappresentanti del CLN di Milano, si recarono in Svizzera per incontrare i rappresentanti degli alleati. L’incontro si svolse a Certenago, sopra Lugano, in casa di Rino De Nobili, un ex-diplomatico antifascista rifugiato in terra elvetica. Per gli angloamericani c’erano Allen Dulles (Usa) e John McCaffery (Gb). Per i rappresentanti del movimento partigiano italiano fu la prima grande occasione per cercare di far comprendere agli alleati il ruolo che i partigiani volevano e potevano avere nella guerra di Liberazione.

Importantissimo, dal punto di vista storico, il racconto che lo stesso Valiani ne fece in occasione delle celebrazioni per il ventennale della Resistenza organizzate dall’Istituto Lombardo per la Storia della Liberazione in Italia tra febbraio e aprile del 1965. Valiani ne parlò diffusamente durante una lezione tenuta nel Salone della Provincia di Milano. In particolare raccontò che Parri riferì con molti particolari del salvataggio di migliaia di prigionieri angloamericani. Poi “Maurizio” descrisse a Dulles e McCaffery la costituzione e la crescita delle bande partigiane nel Nord Italia: “Noi – disse Parri ai due rappresentanti alleati – le stiamo incoraggiando a diventare qualche cosa come un esercito di popolo, combattente, anche se dietro le linee del nemico e dunque in condizioni irregolari, soven­te disperate, ma con la prospettiva di riuscire a liberare e presidiare dei territori non privi d’importanza strategica e di contribuire, anche con battaglie in campo aperto, alla sconfitta dell’esercito tedesco”.

Secondo Valiani, Dulles e McCaffery rimasero impressionati dalle parole di Parri. In quel momento, solo i partigiani jugoslavi erano riconosciuti come cobelligeranti e le bande di Tito, nonostante la distanza delle posizioni politiche, venivano sostenute e aiutate a combattere i tedeschi che avevano invaso i loro territori. L’Italia, invece, era stata alleata dei tedeschi fino all’8 settembre 1943 e la situazione non era ancora tale perché il nostro Paese potesse chiedere agli angloamericani lo stesso trattamento.

Valiani, nel 1965, era in grado di spiegare quello che si seppe dopo: gli alleati erano molto contenti del sostegno che poteva arrivare dai partigiani in termini di informazioni, aiuti ai prigionieri angloamericani in fuga e rapida guerriglia per minare le sicurezze dei tedeschi. Ma non avevano fretta di chiudere la questione italiana e la loro intenzione era quella di tenere aperto il fronte della nostra penisola abbastanza a lungo per impedire a Hitler di spostare truppe a Nord, segnatamente nella parte settentrionale della Francia e ai confini con la Germania, dove stavano per cominciare le battaglie decisive e finali della guerra.

“Quel che Dulles e McCaffery ci dissero – ricorda Valiani – era che gli Alleati avevano previ­sto solo che la Resistenza assolvesse in Italia, come già faceva in altri Paesi occupati dell’Europa occidentale, a compiti d’informazione sull’en­tità, la dislocazione e i movimenti delle truppe tedesche, d’interruzione delle comunicazioni tedesche, di distruzione o sabotaggio degli impianti militari tedeschi, d’assalto a quei gangli militari tedeschi che potevano essere colpiti da azioni di sorpresa di gruppi audaci di partigiani, così come alla lotta contro le forze fasciste che collaboravano con gli occu­panti tedeschi. Parri era naturalmente d’accordo sull’assolvimento di que­ste mansioni, che la Resistenza italiana esplicava già… ma fu fermo altresì nel mantenimento del­la prospettiva della formazione d’un esercito partigiano popolare e nella richiesta che gli aviolanci si estendessero fino a coprirne il fabbisogno in armi. Su ciò non poté ottenere altra assicurazione se non che il problema sarebbe stato riferito agli organismi dirigenti alleati”.

 

 

NASCE IL COMANDO GENERALE

La situazione politica all’interno del Comitato militare cominciò a sbloccarsi nella primavera del 1944. Come spesso succede, ci volle una fase di alta tensione al limite della rottura per arrivare a una svolta fondamentale e positiva per il CLNAI e l’intero movimento resistenziale.

Il 25 marzo 1944, la componente comunista uscì con un documento molto duro nei confronti di Ferruccio Parri. Lo accusavano di aver messo in piedi una “… incontrollabile dittatura… sui punti più delicati del funzionamento del Comitato militare…”, di accentrare su di sé tutte le decisioni, di evitare ogni forma di controllo da parte degli altri membri, di favorire (in termini organizzativi ed economici) le brigate di Giustizia e Libertà e di tenere segreti termini e contenuti dei suoi rapporti con gli alleati. Il Pci chiedeva di affiancare a Parri un vice che lo controllasse. Altrimenti proponeva di sostituirlo.

Parri rispose duramente. Non negò di aver accentrato le responsabilità sulla sua persona, ma riteneva che questo dipendesse dalle circostanze e dalle difficoltà della lotta armata contro il nazifascismo. Accusò a sua volta i comunisti di essere sempre stati poco collaborativi, di agitare critiche prive di fondamento e di essere preconcetti nei suoi confronti. “Maurizio” rivendicava di aver tenuto una condotta assolutamente limpida e di essere al di sopra di ogni sospetto dal punto di vista della moralità.

Il 27 marzo il CLNAI si riunì a Milano e decise di confermare la fiducia a Parri. Su un punto però diede ragione al Pci, togliendo al leader azionista il monopolio dei rapporti con gli alleati e affidando la questione ad Alfredo Pizzoni (di area liberale) e al socialista Giovan Battista Stucchi. In questo modo, però, veniva indebolita la posizione che Parri stava faticosamente cercando di far accettare agli alleati: il riconoscimento, cioè, dell’autorità bellica del Comitato militare.

Alla fine di marzo del 1944, dunque, si toccò forse il punto più basso dei rapporti politici tra i partiti della Resistenza nel CLNAI e nel Comitato militare. Anche se, va detto, non venne mai meno l’unità di intenti contro il nazifascismo e le questioni politiche non interferirono più di tanto sull’operatività.

Nel ricompattare le forze partigiane dal punto di vista politico, fu forse fondamentale la celebre “svolta di Salerno” (aprile 1944) con la quale Palmiro Togliatti portò il Pci su una posizione decisamente più “governativa”. In sostanza (d’accordo con gli stessi sovietici) i comunisti rinunciarono a puntare direttamente (e anche attraverso la Resistenza) a un profondo cambiamento dello Stato italiano in senso socialista e accettarono l’idea che, una volta risolta la questione nazifascista, si andasse a un governo di unità nazionale e alla formazione di una Assemblea Costituente che avrebbe deciso la forma del nuovo Stato rispetto alla questione monarchia-repubblica. Il Pci, anche grazie alla mediazione di Enrico De Nicola (che sarebbe divenuto il primo Presidente della Repubblica), accettava dunque che la monarchia restasse in sella fino a quella decisione.

A questo punto, diventava precipuo interesse anche del Pci far sì che il CLNAI, attraverso la sua struttura militare, diventasse uno strumento forte e coeso delle forze antifasciste anche in chiave del confronto con il governo provvisorio e, soprattutto, con gli alleati.

Così, in poche settimane, quello che sembrava impossibile, divenne rapidamente realtà e il 10 giugno 1944 il CLNAI deliberò la nascita del Comando generale per l’Alta Italia che prendeva il posto e tutte le funzioni del Comitato militare. La relativa delibera porta la data del 19 giugno perché ci volle qualche giorno per limarla e farla accettare a tutti i partiti. Questa volta, però, alla testa del Corpo Volontari della Libertà si creava una struttura politico-militare davvero unitaria, alla quale tutti i partiti decisero di fare riferimento. E il primo passo fu quello di inserire uomini di peso nella struttura a sei: il Pci nominò Luigi Longo, il Pd’A confermò Ferruccio Parri. Con loro entrarono: Luigi Bignotti (Dc) che venne arrestato in luglio e fu sostituito da un uomo di caratura anche maggiore come Enrico Mattei, Mario Argenton (Pli), Guido Mosna (Psiup) poi sostituito da Sandro Pertini e, più avanti, da Giovanni Battista Stucchi. Il sesto membro era il consigliere militare, nella persona del generale Giuseppe Bellocchio. Il Comando generale rimase una struttura paritetica ma Parri e Longo presero il controllo della sezione “operazioni” che, di fatto, era il nucleo più importante del Comando.

Ma anche questa situazione di equilibrio durò appena pochi mesi. A fine agosto il generale Bellocchio venne sostituito dal generale Raffaele Cadorna, personaggio di tutt’altro peso politico e militare. Cadorna godeva dell’appoggio di liberali e democristiani e aveva la fiducia del governo Bonomi e degli alleati. In sostanza, con il suo ingresso, il Comando generale passò da una diarchia a un comando a tre: a Longo e Parri si aggiunse Cadorna che, anzi, prese la funzione di comandante generale, con Parri e Longo vice comandanti.  I due leader politici, però, mantennero la responsabilità sulle brigate operative sul territorio con l’obiettivo di dar vita ai CLN regionali almeno in Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto. Mosna venne nominato capo di stato maggiore, con Argenton e Mattei vice. L’equilibrio (di cui Cadorna non fu mai molto soddisfatto) si basava anche sul dato che Longo e Parri avevano rapporti politici importanti con le rispettive brigate (“Garibaldi” e “Giustizia e Libertà”), mentre Cadorna non aveva un “suo” esercito sul campo. Da notare che la “nomenclatura” era quella tipica di un esercito regolare a dimostrazione del fatto che la Resistenza italiana continuava a portare avanti il concetto di un “esercito regolare di popolo” che Parri aveva già esternato agli alleati e che continuerà ad essere perseguito dagli antifascisti, per concretizzarlo infine con la legge del 1958.

L’ORGANIZZAZIONE DEL COMANDO GENERALE

Il Comando generale fu subito operativo. L’organismo si riuniva una volta a settimana (il giovedì) presenti i sei membri effettivi più il colonnello Vittorio Palombo, capo di stato maggiore e braccio destro di Cadorna.

Vennero organizzati diversi “Servizi” necessari allo svolgimento delle varie attività.        Tutti erano compartimentati per motivi di sicurezza (la pressione nazifascista in quei mesi era molto pesante e gli arresti di dirigenti della Resistenza erano molto frequenti) e ciò creava qualche problema di efficienza, ma in generale il lavoro venne svolto con ottimi risultati. Ecco quali erano i “Servizi”:

  1. Segreteria del Comando generale. Retta da Walter Audisio (l’uomo che si dice abbia giustiziato Benito Mussolini), riproduceva i documenti del Comando e doveva diffonderli ai comandi regionali. Incontrò molte difficoltà soprattutto per la carenza di strumenti radiofonici per collegare i comandi regionali e di brigata;
  2. Collegamento con gli alleati e, quindi, con la Svizzera. Dal 1943 esisteva e funzionava benissimo il servizio corrieri organizzato da Parri e diretto adesso dall’avvocato azionista Alberto Cosattini. Il servizio effettuò oltre trecento viaggi senza perdite. Nella primavera del 1944 era nato a opera di Enzo Boeri un ottimo servizio radiofonico con la Svizzera. Le radio erano dislocate in montagna come a Milano e si spostavano continuamente per non essere individuate dai tedeschi. Nel settembre 1944 a Boeri (passato ad altri incarichi) subentrò Giuseppe Cirillo;
  3. Servizio aviorifornimenti. Doveva servire a coordinare e indirizzare i lanci di rifornimenti degli alleati destinati alle brigate sul campo. Parri lo considerava molto importante anche nei rapporti tra il Comando generale e gli angloamericani. Per lo stesso (e opposto) motivo, gli alleati tendevano a evitare il rapporto con la struttura centralizzata del Comando e preferivano accordarsi direttamente con le brigate;
  4. Servizio Informazioni. Nacque il 13 luglio 1944 sulla struttura preesistente messa in piedi da Parri. Venne diretto da Vittorio Guzzoni e poi, dal 12 settembre, in seguito al suo arresto, da Enzo Boeri. Fu probabilmente il servizio migliore messo in piedi dalla Resistenza. C’era una redazione centrale (diretta da Ugo Graioni) e tre sezioni: controspionaggio (Gaetano De Luca), economia (Carlo Battistella) e militare (Ottorino Maiga). Il servizio coordinava e riceveva informazioni da una settantina di centri sul territorio. Produceva diversi bollettini (settimanali oppure ogni 10-15 giorni): informazioni militari urgenti (poche copie per il gruppo dirigente), informazione politica (ne uscirono 38 numeri), controspionaggio (21 numeri) con i nomi delle spie e dei collaborazionisti, azioni partigiane (23 numeri), più diversi strumenti monografici. Tutto arrivava anche agli alleati. Nel novembre 1944, Cadorna chiese di unificare il suo servizio informazioni (retto da Aldo Beolchini) con quello di Boeri, accentuando il lavoro sulle informazioni militari in vista dell’offensiva finale. Ma Beolchini e Boeri furono arrestati uno dopo l’altro. Il servizio passò a Fermo Solari, poi a Mario Argenton che lo resse fino alla fine. Collegata al servizio informazioni c’era la redazione de “Il Combattente”, organo delle Brigate Garibaldi e passato poi sotto il controllo diretto del Comando generale del CVL, diretto da Giancarlo e Giuliano Pajetta.
  5. Servizio amministrativo. Retto da Fermo Solari e poi da Tulli (“Tallone”) con la supervisione di Enrico Mattei. Ovviamente era molto importante perché da esso dipendeva il finanziamento e quindi il sostentamento delle brigate partigiane. I fondi, come detto, provenivano dagli alleati (prima 70 milioni e, negli ultimi mesi del 1944, anche 160 milioni al mese) e rappresentavano circa un terzo del necessario. I soldi venivano dalla Svizzera tramite corrieri e/o tramite strumenti bancari (Banca Commerciale e Credito Italiano).
  6. Il Servizio falsi. Oscuro ma molto importante, procurava documenti falsi per tutte le necessità della vita clandestina dei dirigenti che dovevano continuare ad abitare in città;
  7. Il Servizio assistenza e sanità. Si occupava degli aiuti alle famiglie dei partigiani caduti o fatti prigionieri e organizzava le strutture sanitarie in vista dell’insurrezione.
IL PROCLAMA DEL GENERALE ALEXANDER

Il Comando generale, dunque, funzionava molto bene. Gli alleati cominciarono a capire che la struttura partigiana era tutt’altro che improvvisata ed era anzi in grado di fornire un flusso enorme di informazioni attendibili che, in guerra, sono merce rarissima e preziosa. L’obiettivo di Parri (ormai condiviso da tutti) era quello di arrivare a essere riconosciuti come interlocutori imprescindibili dei probabili vincitori. Fu così che, nell’ottobre 1944, gli angloamericani chiesero al CLNAI un altro incontro in terra elvetica. Questa volta andarono Leo Valiani e Alfredo Pizzoni. A riceverli fu il colonnello Roseberry, uomo dei servizi segreti, delegato del Ministro della guerra inglese.

Racconta Valiani: “Roseberry ci pose l’interrogativo se, nell’ipotesi d’uno sfondamento alleato del fronte tedesco in Italia e della marcia delle divisioni anglo­americane, attraverso il Veneto, sull’Austria, il CLNAI sarebbe stato in grado di assumere i poteri politici e amministrativi nelle regioni nord­occidentali (Lombardia, Piemonte, Liguria) e di mantenervi l’ordine pubblico. Gli rispondemmo che precisamente questo era il compito al quale il CLNAI si attrezzava e in previsione del quale stava popolarizzando l’idea (messa in atto, con raro valore, a Firenze) dell’insurrezione nazionale. Mentre era già in procinto di scegliere le persone che avrebbe insediato, al momento stesso dell’insurrezione, come prefetti, questori e sindaci”.

Gli alleati rimasero favorevolmente impressionati e invitarono una delegazione formata da Parri, Pizzoni, Giancarlo Pajetta ed Edgardo Sogno a un incontro decisivo da svolgersi a Caserta. Il viaggio era complicato e i quattro dovevano passare dalla Francia liberata per arrivare in Campania.

Il viaggio non era ancora terminato quando sul movimento partigiano piovve la terribile doccia fredda del “proclama Alexander”. Harold Alexander era il comandante in capo delle forze alleate. Il suo messaggio venne letto sull’emittente radiofonica “Italia combatte”, nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1944. Di fatto, invitava “i patrioti” a interrompere ogni attività militare “per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno”. Per la Resistenza questa sorta di “fermo invernale” equivaleva a un disastro e, di fatto, nella testa degli alleati (ma anche del governo e del popolo italiano) rischiava di relegare i partigiani e il loro Comando generale a un ruolo minore e subalterno proprio quando la Liberazione sembrava avvicinarsi. Ecco il testo del proclama:

“Patrioti! La campagna estiva, iniziata l’11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita: inizia ora la campagna invernale. In relazione all’avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno. Questo sarà molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità di lanci; gli alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti. In considerazione di quanto sopra esposto, il generale Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:

  1. cessare le operazioni organizzate su larga scala;
  2. conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
  3. attendere nuove istruzioni che verranno date a mezzo radio “Italia Combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni arrischiate; la parola d’ordine è: stare in guardia, stare in difesa;
  4. approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare i tedeschi e i fascisti;
  5. continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico; studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere;
  6. le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari;
  7. poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata;
  8. il generale Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l’espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate durante la scorsa campagna estiva”.

Sul proclama sono state scritte molte cose. E Alexander arrivò a dire di essere stato male interpretato e che, addirittura, il testo fosse frutto del lavoro di un ufficio stampa “più realista del re” e che non gli fosse stato neppure sottoposto prima del lancio radiofonico. In sostanza però gli effetti erano devastanti. Per diversi motivi:

  1. prevaleva la linea americana, secondo la quale il fronte italiano era un fronte “di serie B” e tutto andava sottoposto alle esigenze del fronte principale che era quello del Nord della Francia;
  2. spariva dal tavolo l’importanza della struttura politico-militare che i partigiani si erano dati e che l’incontro in Svizzera con Roseberry sembrava aver confermato quale autorevole interlocutrice;
  3. difficilmente i partigiani avrebbero retto un inverno in montagna ad “aspettare”; ci sarebbero stati problemi di ogni tipo, compresa la sicurezza;
  4. il CLNAI perdeva forza anche nei confronti del governo Bonomi e si rischiava di arrivare a una Liberazione tutta guidata dalle truppe alleate.

Dimostrando notevole presenza “politica”, il Comando generale agì subito sui due fronti: quello “interno” (le Brigate) e quello “esterno”:

  1. il 2 dicembre 1944, infatti, viene resa nota a tutte le brigate l’interpretazione che il Comando generale forniva del proclama del generale Alexander. Non si trattava di restare fermi in montagna ad aspettare il passaggio dell’inverno, ma di scendere in pianura (venne così coniato il discutibile termine di “pianurizzazione” della lotta partigiana) e di allargare il fronte alle città: “… una smobilitazione anche solo parziale dei combattenti della libertà costituirebbe, di fatto, un invito a capitolare di fronte alle lusinghe e agli allettamenti a lavorare per i nazisti, cioè a tradire tutto il passato di lotta e di onore…”;
  2. venne mantenuto l’impegno dei colloqui di Caserta dove Parri, Pajetta, Pizzoni e Sogno incontrarono il comandante supremo del teatro d’operazione del Mediterraneo, il generale inglese Henry Maitland Wilson. Con lui c’era il comandante della Special Force (servizi segreti) in Italia, il capitano Gerard Holdsworth. Fu proprio Holdsworth ad ammettere che era stato un errore porre limiti all’azione delle brigate partigiane che, anzi, andavano mantenute operative e nella massima efficienza.

I colloqui durarono circa una settimana. Alla fine si raggiunse un accordo che va sotto il nome di “Protocolli di Roma”, un documento di due pagine, in sei punti, che stabiliva molto chiaramente il ruolo delle forze partigiane nell’ultima fase della guerra di Liberazione. C’era quasi tutto quello che Parri e il comando partigiano volevano: dal riconoscimento del CLNAI e del Comando generale, al ruolo dirigente sul territorio nel periodo successivo alla Liberazione, al sostegno economico sostanzioso. C’erano anche gli inevitabili limiti: il comando delle operazioni per la Liberazione del Paese era e restava in mano al comando Alleato e il capo militare del Comando generale del CVL doveva essere un ufficiale accettato dagli alleati (ovviamente Cadorna). Ecco il testo completo dei Protocolli di Roma.

  1. II Comandante Supremo Alleato desidera che la più completa cooperazione militare sia stabilita e mantenuta fra gli elementi che svolgono attività nel movimento della resistenza; il C.L.N.A.I. stabilirà e manterrà tale cooperazione in modo da riunire tutti gli elementi che svolgano attività nel movimento della Resistenza sia che essi appartengano ai partiti antifascisti del C.L.N.A.I. o ad altre organizzazioni antifasciste.
  2. Durante il periodo di occupazione nemica il Comando Generale dei Volontari della Libertà (che è il comando militare del C.L.N.A.I.) eseguirà, per conto del C.L.N.A.I., tutte le istruzioni date dal Comandante in Capo AAI, il quale agisce in nome del Comandante Supremo Alleato. Il Comando Supremo Alleato desidera, in linea generale, che particolare cura sia dedicata alle misure atte a salvaguardare le risorse economiche del territorio contro gli incendi, le demolizioni e consimili depredazioni del nemico.
  3. Il Capo Militare del Comando Generale dei Volontari della Libertà (e cioè del Comando Militare del C.L.N.A.I.) deve essere un ufficiale accetto al Comandante in capo AAI, il quale agisce per conto del Comandante Supremo Alleato.
  4. Quando il nemico si ritirerà dal territorio da esso occupato, il C.L.N.A.I. farà il massimo sforzo per mantenere la legge e l’ordine e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del Paese in attesa che venga istituito un Governo Militare Alleato. Subito, all’atto della creazione del Governo Militare Alleato, il C.L.N.A.I. riconoscerà il Governo Militare Alleato e farà cessione a tale Governo di ogni autorità e di tutti i poteri di governo e di amministrazione precedentemente assunti. Con la ritirata del nemico tutti i componenti del Comando Generale dei Volontari della Libertà nel territorio liberato passeranno alle dipendenze dirette del Comandante in Capo AAI, che agisce per conto del Comandante Supremo Alleato, ed eseguiranno qualsiasi ordine dato da lui o dal Governo Militare Alleato in suo nome; compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi, quando ciò venisse richiesto.
  5. Durante il periodo di occupazione nemica dell’Alta Italia verrà data al C.L.N.A.I. insieme con tutte le altre organizzazioni antifasciste la massima assistenza per far fronte alle necessità dei loro membri che sono impegnati nel contrastare il nemico in territorio occupato; un’assegnazione mensile non eccedente 160 milioni di lire verrà consentita per conto del Comandante Supremo Alleato per far fronte alle spese del C.L.N.A.I. e di tutte le altre organizzazioni antifasciste. Sotto il generale controllo del Comandante in Capo AAI, il quale agisce in nome del Comandante Supremo Alleato, tale somma sarà attribuita alle zone sottoindicate nelle proporzioni sottoindicate per sostenere tutte le organizzazioni antifasciste in tali zone:
    LIGURIA 20
    PIEMONTE 60
    LOMBARDIA 25
    EMILIA 20
    VENETO 35
    La somma complessiva e le singole ripartizioni succitate saranno soggette a variazioni secondo le esigenze della situazione militare: la cifra massima sarà ridotta proporzionalmente man mano che le provincie saranno liberate.
  6. Missioni Alleate addette al C.L.N.A.I., al Comando Generale dei Volontari della Libertà o a qualsiasi dei loro componenti saranno da loro consultate in tutte le questioni riguardanti la Resistenza armata, le misure anti-incendi e il mantenimento dell’ordine. Gli ordini emanati dal Comandante in Capo AAI, in nome del Comandante Supremo Alleato e trasmessi per il tramite delle competenti missioni, saranno eseguiti dal C.L.N.A.I., dal Comando Generale dei Volontari della Libertà e dai loro componenti.

Con in mano l’accordo, il Comando generale poté dedicarsi a rianimare le brigate ancora scioccate dal proclama Alexander e a organizzare la fase finale e difficilissima della Liberazione. L’inverno fu effettivamente durissimo e i tedeschi (che sicuramente sapevano molto della trattativa tra partigiani e alleati) fecero il possibile per mettere sotto pressione la Resistenza in tutto il Nord Italia.

Il 28 dicembre 1944, Parri e la sua delegazione ai colloqui di Caserta rientrarono a Milano. Pochi giorni dopo, il 2 gennaio, “Maurizio” venne catturato dai tedeschi e portato all’Hotel Regina dove aveva sede il comando delle SS. Sulla sua cattura ci sono state diverse congetture (comprese voci che gli stessi alleati lo avessero “venduto” per diminuire il peso delle forze politiche di sinistra in seno al CLNAI) ma sembra ormai accertato che la cattura di Parri fu abbastanza casuale. Ci fu anche un coraggioso tentativo di Edgardo Sogno di liberarlo: fece irruzione all’Hotel Regina ma, dopo una sparatoria, i tedeschi ebbero la meglio e catturarono anche Sogno, mentre Parri venne trasferito in carcere a Verona.

Fu un periodo durissimo: alle pressioni tedesche e alla cattura di Parri e Sogno (fu preso anche Solari) si aggiunsero le dimissioni di Raffaele Cadorna (22 febbraio) per la mancata definizione della sua funzione di comando e per la tendenza degli altri partiti a spostare a sinistra l’asse politico delle forze partigiane nella fase di unificazione. Il CLNAI prese in esame le dimissioni e stabilì che a Cadorna spettasse il comando militare e il ruolo primario nei rapporti con il governo Bonomi e gli alleati (come, in fondo, era detto nei Protocolli di Roma). D’altra parte, a comunisti, socialisti e azionisti interessava più la fase politico-sociale successiva alla Liberazione che la guerra in quanto tale che, prima o poi, sarebbe finita. Cadorna, comunque, rientrate le dimissioni, partì il 28 febbraio per una lunga missione in Svizzera. Rientrò il 19 aprile a pochi giorni dall’insurrezione.

Alla liberazione di Parri contribuirono in modo decisivo gli alleati. Fu il generale americano Allen Dulles a inserire il suo nome (insieme a quello del maggiore degli alpini Antonio Usmiani) nella trattativa intavolata col generale tedesco Karl Wolff che chiedeva spazio per una ritirata onorevole delle sue truppe. La libertà per Parri e Usmiani (ai primi di marzo del 1945) venne ottenuta come “gesto di buona volontà” da parte tedesca.

 

L’UNIFICAZIONE DELLA RESISTENZA

Nonostante tutti questi problemi politici, il Comando generale riuscì a mantenere il coordinamento delle oltre cento brigate e a organizzare, insieme ai CLN locali, l’insurrezione nelle principali città del Nord. Molto interessante, da questo punto di vista, il documento del 29 marzo sull’unificazione delle formazioni partigiane (104 brigate e circa 10.000 tra uomini e donne).

“Allo scopo:

  1. di potenziare l’organizzazione, l’efficienza ed il valore militare delle attuali formazioni partigiane;
  2. di farle riconoscere come regolari formazioni militari, con tutti gli attributi e i diritti di unità belligeranti;
  3. di preparare il passaggio ordinato e disciplinato alla situazione che verrà a crearsi a liberazione avvenuta;

il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia decide di trasformare le attuali formazioni partigiane in regolari unità militari, raggruppate nel Corpo Volontari della Libertà, per cui verrà richiesto al Governo democratico italiano il riconoscimento come parte integrante delle Forze armate italiane”.

Misure pratiche di attuazione dell’unificazione del CVL:

  1. Tutte le formazioni partigiane attualmente esistenti cessano di dipendere organizzativamente dai vari Comandi generali e vengono poste a tutti gli effetti sotto il solo Comando del Corpo Volontari della Libertà, dipendente dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Questa unificazione s’intende estesa ai Comandi e ai Servizi, sia locali che regionali e centrali. Tutti i mezzi e i materiali, di qualsiasi genere e natura, in consegna delle varie formazioni partigiane, sono da considerarsi di pertinenza del CVL.
  2. Sono aboliti tutti i Comandi, tutte le dipendenze organizzative, tutte le denominazioni particolari finora in uso [“Garibaldi”, “Giustizia e Libertà”, “Matteotti”, “Autonome”, “Fiamme Verdi”, “Julia”, ecc.] e qualsiasi altra non previa e consentita dalle presenti norme.
  3. I distaccamenti ed i battaglioni di ogni Brigata, oltre ad essere contraddistinti da una numerazione propria ad ogni brigata, devono portare il nome di un Caduto della guerra di Liberazione. Le Brigate saranno contraddistinte da una numerazione progressiva unica per tutto il CVL e devono portare il nome di un Caduto della guerra di Liberazione. Le Divisioni saranno contraddistinte da una numerazione progressiva per regione e dal nome della regione stessa e devono portare il nome di un Caduto della guerra di Liberazione. Le Piazze, le Zone, le Regioni saranno contraddistinte dal solo nome geografico.
  4. I simboli e i distintivi del CVL sono quelli nazionali e del CLN; bandiera tricolore, stella d’Italia a cinque punte, sigla CLN da inscriversi nel centro stesso della stella. I distintivi in grado per le varie funzioni di comando restano quelli già fissati da precedenti disposizioni del CVL.
  5. Non è più riconosciuta l’esistenza o la costituzione di formazioni partigiane che non si pongano nell’ambito e alle dipendenze del CVL.

 

LA LIBERAZIONE E LO SCIOGLIMENTO

Parri, Longo, Cadorna, Argenton, Mattei e Stucchi guidarono la sfilata della Liberazione il 6 maggio 1945. Una famosa foto li immortala alla testa del corteo. Sono in abiti civili (compreso Cadorna) ma marciano con piglio decisamente militare. Sono la plastica rappresentazione di quello che fu, effettivamente, un esercito regolare di popolo.

Quello stesso 6 maggio, la bandiera del Corpo Volontari della Libertà (oggi custodita nel Museo Sacrario delle Bandiere al Vittoriano) venne decorata dal generale americano Crittenberger con la Medaglia d’Oro, conferita con Decreto Luogotenenziale del 15 febbraio 1945. Ecco la motivazione:

“Nell’ora tragica della Patria, quasi inermi ma forti per sovrumana volontà, tutto sacrificando a un ideale supremo di giustizia, i Volontari della Libertà affrontarono la lotta ad oltranza contro la tirannide che ancora una volta opprimeva la nostra terra. In una sfida superba al secolare nemico, dall’esempio dei martiri e degli eroi del passato trassero incitamento per vincere o morire, innalzando nella lotta la bandiera invitta del Risorgimento. Appesi alle forche e sotto il piombo del barbaro nemico morirono intrepidi rinnovando il sacrificio dei Manara, dei Morosini, dei Mameli, dei Pisacane senza speranza di premio per sé, ma con certezza di bene per la Patria. Nuovo onore della Stirpe, i Volontari della Libertà sono, nella storia d’Italia, monito alle generazioni future”.

Il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà rispettò pienamente i patti dei “Protocolli di Roma” e il 15 giugno 1945, avendo ceduto i suoi compiti al Comando alleato, si sciolse. Rimase in carica il solo Mario Argenton che si occupò a fondo di tutta la fase di smobilitazione delle brigate attraverso il suo Ufficio Stralcio.

IL DOPOGUERRA

Che il CVL e il suo Comando generale fossero destinati a restare attivi (sul terreno politico e sociale) anche dopo lo scioglimento del Comando, era nei fatti. A cominciare da Ferruccio Parri che fu il Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia. Parri restò in carica dal 21 giugno al 10 dicembre 1945.

Tra il 29 luglio e il 15 ottobre 1946 si svolse a Parigi la Conferenza di Pace in cui l’Italia doveva vedersela – come Paese prima aggressore, poi sconfitto – con le “potenze alleate associate”: Urss, Bielorussia, Impero Britannico (Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, India, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Unione del Sud Africa), Stati Uniti d’America, Repubblica di Cina, Francia, Belgio, Brasile, Cecoslovacchia, Etiopia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Nel marzo 1946, sotto gli auspici del Ministero dell’Assistenza post-bellica e per iniziativa dell’Ufficio stralcio del Corpo Volontari della Libertà, si decise di realizzare una mostra internazionale della Resistenza italiana a Parigi, da tenersi nei giorni in cui si sarebbe aperta la Conferenza di pace. Si pensò di allestire un percorso capace di “portare alla coscienza del mondo quel che l’Italia ha patito e quel che essa ha fatto”. Il percorso espositivo, progettato dagli architetti Lodovico di Belgiojoso, Gabriele Mucchi, Guido Veneziani, Eugenio Gentili Tedeschi, venne realizzato in 160 pannelli e due grandi plastici che rimasero esposti dal 14 al 26 giugno 1946 nella Salle Fox dell’École des Beaux Arts di Parigi. Nel 2003 la mostra è stata ritrovata, ristrutturata e allestita a Torino nel Palazzo dei Quartieri militari.

In occasione della mostra fu stampato un volume che spiegava cosa era stata la Resistenza in Italia e quale il contributo all’abbattimento del fascismo e alla Liberazione dal nazifascismo. Il libro (in italiano e francese) venne ristampato nel 1995. Il testo racconta i fatti e le immagini, a volte tragiche, parlano da sole.

Nella prefazione, a firma di Parri, Longo, Cadorna, Argenton, Mattei e Stucchi, si affermava:

“Perché scriviamo, per voi amici queste pagine; perché desideriamo che voi leggiate questo volume? Non è uno scopo celebrativo, una piccola vanità combattentistica, né intenti di propaganda nazionalistica che ci muovono. Noi vi presentiamo un’Italia, un popolo che voi non conoscete bene; attraverso queste immagini di una lotta diuturna, di un’insurrezione preparata meditata voluta, voi potrete intendere e sentire una somma di energia morale che dà al nostro giudizio un’orgogliosa e serena sicurezza. La delusione, non solo nostra ma di tutto il mondo, di uomini liberi che attendevano da una guerra di liberazione un indirizzo nuovo, una regola nuova di condotta nei rapporti con i popoli; l’esperienza amara di questa pace ingenerosa; la miopia pericolosa di chi non ha capito ch’era meglio per l’avvenire della pace e del mondo trattarci non come un popolo in castigo ma come un popolo amico: tutto ciò non altera la nostra volontà di tener fede alla nostra missione di popolo pacifico e democratico. Non abbiamo lottato contro il fascismo ed il nazismo per calcolo transitorio: la fedeltà agli ideali in nome dei quali è sorta è la ragion di vita dell’Italia giovane che noi vogliamo rappresentare. Ma con pari fermezza riteniamo di avere il diritto, il giorno dopo la conclusione della pace, di chiedere la revisione delle sue clausole ingiuste. Lo dobbiamo ai nostri morti. Ma non è ancor questa l’assicurazione maggiore che vogliamo dare ai compagni morti ed ai compagni vivi.         Ad essi diciamo che era ed è stato giusto e santo combattere, anche se l’avvenire fosse stato senza speranza ed i vincitori più immemori e più sordi: giusto e santo, perché dovevamo farlo per noi stessi, per la responsabilità che lega ogni generazione al passato ed all’avvenire. Perché, abbattuto il fascismo, solo una guerra di liberazione e di riscatto, sorta dal popolo, avrebbe potuto aprirci la strada per la risurrezione nazionale. La ragione vera e finale di queste pagine è dunque questa, di rivelare a voi, stranieri, la riserva profonda di generosità e di fierezza che in un’ora decisiva della sua storia ha spinto il popolo italiano alle armi ed all’insurrezione. Ha meritato che gli si faccia fede. Noi speriamo, noi vogliamo – amici stranieri – che gli storici di domani accanto ai Mille di Garibaldi, combattenti del nostro primo risorgimento nazionale, possano aggiungere i centomila della nostra guerra di popolo, pionieri, del secondo”.

 

VERSO IL RICONOSCIMENTO DEL CVL

I leader del CVL avevano chiara la necessità storica di un riconoscimento politico del Corpo Volontari della Libertà. Quel riconoscimento stabiliva una differenza profonda tra la Resistenza italiana e quelle (con l’eccezione della Grecia) di tutti gli altri Paesi europei. La lotta di Liberazione, in Italia, era stata una vera e propria lotta di popolo (nell’ultimo anno anche numericamente molto consistente) con un vero e proprio esercito organizzato e riconosciuto come interlocutore politico e militare dagli stessi alleati.

La strada, come vedremo fu lunga e costellata di difficoltà. Ci voleva una legge che, teoricamente, vista l’unità delle forze partigiane che facevano capo a Pci, Dc, Psiup, Partito d’Azione e Pli, non doveva essere difficile da condurre in porto. Ma proprio le divisioni politiche tra queste forze, culminate nella caduta del terzo governo De Gasperi (31 maggio 1947) dovuta principalmente alle pressioni dell’amministrazione Usa di Harry S. Truman, impedirono la nascita del provvedimento. Comunisti e socialisti ruppero definitivamente con la Dc già ai primi di maggio quando De Gasperi fu costretto a spiegare a Nenni e Togliatti che l’Italia, per volontà degli alleati, non poteva avere comunisti e socialisti al governo. In gioco erano gli aiuti economici che avrebbero permesso al Paese di risollevarsi dalla crisi postbellica.

Pci e Psiup attaccarono pesantemente la Democrazia Cristiana che, per la prima volta, tradiva lo spirito unitario della Resistenza. Togliatti e Nenni parlarono di “crisi voluta dagli speculatori”. Cominciarono anni di contrapposizione frontale tra governo e opposizioni di sinistra, anche se comunisti e socialisti continuarono sempre a portare un importante contributo ai provvedimenti che fecero crescere l’Italia nei successivi vent’anni. Il tema del riconoscimento del CVL passò in secondo piano. Per questo ci volle molto tempo per arrivare alla legge.

1948, NASCE LA FONDAZIONE

Il 10 settembre 1948, con atto registrato dal notaio Giuseppe Quadri di Milano, nacque la Fondazione Corpo Volontari della Libertà, ente “a carattere nazionale”, “apartitico” e “apolitico”. Il compito precipuo era quello di assistere i partigiani in difficoltà e le vedove e gli orfani di quelli caduti in battaglia (o deceduti successivamente). Ma anche “di favorire le iniziative dirette ad illustrare e valorizzare il contributo italiano alla guerra di Liberazione”.

Un anno prima, il 18 luglio 1947, su iniziativa di Enrico Mattei (che era stato tesoriere del Comando generale del CVL) si era svolta al Piccolo Teatro di Milano un’assemblea di tutti i capi partigiani. Presenti anche il Ministro della guerra, Cingolani, e il sottosegretario all’assistenza postbellica, Edoardo Martino (lui stesso comandante partigiano). Sul tavolo c’erano anche 110 milioni di lire di allora (oltre 2 milioni e 185 mila euro di oggi) che corrispondevano a una tranche di aiuti alla Resistenza, promessi dagli alleati e arrivati solo dopo la Liberazione. Erano tanti soldi e il Comando generale del CVL aveva deciso di dar vita con questa somma a una fondazione che si dedicasse all’assistenza dei partigiani bisognosi e delle famiglie dei Caduti. Ma gli ostacoli non mancavano e, come racconta Mario Argenton in una bella intervista a “Patria Indipendente” del 9 settembre 1984,        “… i burocrati romani tentarono di venire in possesso di questo denaro che, peraltro, per interessamento anche di Alfredo Pizzoni (già presidente del CLNAI) era stato versato su un conto del Credito Italiano di Milano di cui lo stesso Pizzoni era presidente e messo a disposizione dell’Ufficio stralcio del CVL”.

Il Congresso dei capi partigiani prese la decisione più ovvia e corretta. Quei soldi che, se fossero arrivati durante la guerra partigiana sarebbero serviti per il sostentamento dei partigiani, ora dovevano servire ad aiutare chi, pur avendo contribuito fattivamente alla Liberazione del Paese, era rimasto indietro.

Così si decise la nascita della Fondazione. Il primo direttivo venne formato dai grandi leader della Resistenza, nominati a vita: Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Luigi Longo, Enrico Mattei, Mario Argenton e Gian Battista Stucchi. Ad essi si aggiunsero: Francesco Scotti (Pci, Formazioni “Garibaldi”), Eugenio Cefis (Dc, “Brigate del Popolo”), Enrico Martini “Mauri” (Formazioni autonome), Enrico Gandolfi (“Giustizia e Libertà”), Guido Mosna (formazioni “Matteotti”). Successivamente venne cooptato nel direttivo il Presidente dell’ANPI, Arrigo Boldrini (“Bulow”). Il primo Presidente della fondazione fu Raffaele Cadorna (fino alla sua morte nel 1973). Gli subentrò Ferruccio Parri, morto nel 1981 a 91 anni.

Nel 1976 è stato redatto un nuovo Statuto che prevede la presenza nel Comitato Direttivo, oltre ai cinque membri fondatori, o loro cooptati, di due rappresentanti per ognuna delle tre Associazioni partigiane: Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I.), Federazione Italiana Volontari della Libertà (F.I.V.L.), Federazione Italiana Associazioni Partigiane (F.I.A.P.).

Racconta ancora Mario Argenton: “Nei primi anni la Fondazione ha svolto assistenza agli orfani dei partigiani Ca­duti, ai figli dei dispersi, dei mutilati e degli invalidi della guerra partigiana e loro famiglie; ha elargito borse di studio, contributi scolastici, sussidi straordinari per particolari casi di ur­genti necessità. Fu anche un lavoro fortemente impegnativo, per la deli­catezza dei casi che si presentavano, la ricerca dei Caduti, in particolare quelli meridionali, di cui non si conoscevano le esatte generalità ma solo il nome di battaglia che si erano dati. Ma ha svol­to anche una notevole attività intesa a far conoscere in Italia e all’estero quale era stato il grande contributo di sacrificio e di valore che la Resistenza aveva dato alla causa della Liberazione ed il concreto apporto dato, che ha de­cisamente influito a rendere più rapida la fine del conflitto. (…) Nel patrimonio della Fondazione figu­ravano inoltre i due film Il sole sorge ancora e Pian delle Stelle che furono anche doppiati per l’estero”.

 

FINALMENTE LA LEGGE

Ci vollero, come si diceva, ben tredici anni (fino al marzo 1958) per arrivare al riconoscimento del Corpo Volontari della Libertà come parte integrante dell’esercito italiano. Già nel 1951, arrivò un primo, parziale riconoscimento: il 9 gennaio venne approvata la legge 167/51 che istituiva il Consiglio Superiore delle Forze Armate, organo consultivo del Ministero della Difesa. Un organismo importante in quanto il suo parere è obbligatorio in alcuni casi previsti dalla legge. Ebbene, all’art. 8 era scritto: “Il Presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate, per le riunioni plenarie, ed i presidenti di sezione, per le riunioni di sezione, possono di volta in volta convocare, per dare parere, ufficiali delle Forze Armate ed eventualmente funzionari delle amministrazioni statali, il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, i rappresentanti qualificati del Corpo Volontari della Libertà e delle formazioni partigiane, nonché persone di particolare competenza nel ramo scientifico, industriale ed economico ed esperti in problemi militari”.

Ma la proposta di legge che portò alla conclusione positiva della vicenda venne presentata il 21 gennaio 1958. Le firme erano prestigiose: Arrigo Boldrini (Presidente ANPI), Luigi Longo (Pci), Sandro Pertini (Psi), Leonetto Amadei (Psi, che nel 1979 sarebbe diventato Presidente della Corte Costituzionale). Il titolo recitava: “Riconoscimento giuridico del Corpo Volontari della Libertà”.

Dalla relazione dei presentatori emergeva un problema di “grave incertezza che tuttora perdura, nella valutazione circa la conformità alle norme di diritto interno delle attività svolte ai fini della lotta di Liberazione dagli appartenenti al Corpo Volontari della Libertà e a tutti coloro che parteciparono alla lotta medesima”.

In sostanza, la legge preesistente non tutelava le azioni dei partigiani contro i nazisti e i fascisti, non le considerava a priori azioni di guerra ma si limitava a sancirne la “non punibilità”. Ciò non impediva che di tanto in tanto partissero azioni penali o civili contro i partigiani combattenti. In particolare, dicevano i relatori, si sanciva una situazione di diritto assolutamente non conforme “a quella determinatasi nell’Italia occupata dai tedeschi e a quello che fu il costante riconoscimento dato dal governo legittimo alle formazioni partigiane”. Né veniva riconosciuto il fatto che dal governo arrivavano “precise autorizzazioni, per non dire ordini” dati dal governo ai cittadini stessi “anche civili e isolati per la lotta contro i tedeschi occupanti”. Per superare queste incertezze, secondo i relatori, era necessario sancire “la parificazione delle azioni di carattere militare compiute contro i tedeschi in zona occupata a quelle compiute dall’esercito regolare in tempo di guerra”.

Da qui la proposta, formulata in un solo articolo, che recitava:

“Il Corpo volontari della libertà (C.V.L.) è riconosciuto, ad ogni effetto di legge, come Corpo militare organizzato inquadrato nelle Forze armate dello Stato, per l’attività svolta fino all’insediamento del Governo militare alleato nelle singole località. I benefici economici e di carriera degli appartenenti al Corpo volontari della libertà restano disciplinati dalle preesistenti disposizioni legislative”.

Dalle parole degli autorevoli relatori emerge l’esistenza di un problema politico serio che ancora oggi, di tanto in tanto, viene fuori nel dibattito pubblico. È la questione della legittimità della Resistenza e delle azioni militari messe in atto dai partigiani. È il tema gravissimo (ancora oggi sollevato da esponenti della destra) che si traduce nella frase: “La Resistenza fu una questione tra fascisti e comunisti”. Il riconoscimento del Corpo Volontari della Libertà come Corpo militare è la risposta perfetta e definitiva a queste incredibili affermazioni. La Resistenza fu un fatto di popolo e i partigiani agirono come soldati di un esercito militare che faceva capo al CLN e all’unico governo legittimo in quel momento, in Italia: il governo Bonomi.

 

Medaglia d’Oro al V.M. alla Bandiera del C.V.L. - Decreto Luogotenenziale del 15 febbraio 1945 - registrato alla Corte dei Conti il 16 febbraio 1945 (guerra, registro I foglio 264. Disp. IIa anno 1945)

Riconoscimento del CVL come “corpo militare inquadrato nelle Forze armate dello Stato” (Legge 1958 n. 285)